Veronica Galletta: “Mi chiedevo: a chi interessa una storia di cantieri?”. Il Premio Strega non l’ha pensata così e “Nina sull’argine” vola in finale
La scrittura? «Me l’ha insegnata il cantiere con il suo fare e l’osservare. I fiumi, il mare, la campagna». Veronica Galletta, nata e cresciuta a Siracusa, ha trascorso parte dell’infanzia in Sardegna (Ozieri) e da anni vive a Livorno, città che ama. Come gli altri luoghi che ha attraversato, d’altronde. Ingegnera idraulica fino al 2019, si dimette per scrivere a tempo pieno. Con il suo secondo romanzo, “Nina sull’argine” (Minimum Fax), è tra i dodici finalisti al Premio Strega 2022. La protagonista è Caterina (Nina), ingegnere(a) emigrata dalla Sicilia al Nord, al suo primo importante incarico di costruzione. È una dirigente, ma anche una donna tutt’altro che risolta, con una storia d’amore in crisi. “Nina sull’argine” parla di lavoro, relazioni, solitudini, alienazioni. Di potere e compromessi. Di fantasmi. Con il precedente “Le isole di Norman” Veronica vince il Premio Campiello Opera Prima 2020 e dice: «Capirò passo dopo passo cosa significa questa vittoria».
Nel frattempo, Veronica, l’hai capito?
«Ho capito che si ha una grande responsabilità. Ci si aspetta che tu poi produca qualcosa di ulteriormente interessante. La responsabilità è nei confronti del Campiello stesso, da cui ho ricevuto molta cortesia».
Passare dal Campiello allo Strega non capita tutti i giorni. Come vivi questo periodo?
«Con un po’ di agitazione. Ho deciso di cambiare, in qualche modo. Io so che c’è un collegamento tra i due romanzi, e credo lo abbia capito anche chi legge in maniera attenta. Però chi è all’esterno vede una storia ambientata in un altro luogo, con un’altra lingua, un altro personaggio. Quindi sì, la preoccupazione c’era. Ma non mettiamo ansia per il futuro. Ovvio, sono molto contenta e la cosa a cui tenevo di più era l’uscita di un romanzo sul lavoro».
Perché parlare di lavoro oggi?
«Volevo fosse interessante quel tipo di lavoro, quello che avevo visto e conoscevo. Poi mi chiedevo: a chi vuoi che interessi una cosa così specifica, così di cantiere? Ma quando ho visto che una giuria come quella dello Strega è stata colpita da questa storia, per me è stata una cosa immensa».
Protagonista è Caterina, “Nina”. Fa l’ingegnere, un mestiere da “maschi”. Colpisce che il romanzo sia uscito in un periodo in cui molte donne hanno perso il lavoro. Qual è il tuo pensiero in merito?
«Si parla molto di lavoro, oggi, e forse in modo meno retorico di ieri. Io volevo raccontare di questo personaggio, del cantiere, della vita degli operai, anche. Forse è uscito nel periodo giusto. La reputo una fortuna. Ma questi sono anche tempi in cui accadono molte dimissioni. Io stessa tre anni fa mi sono dimessa. Ho fatto per vent’anni un lavoro bellissimo, appagante, ma sentivo che era chiuso un ciclo. Ero molto impegnata con la scrittura, ma non è stato solo questo. La mia è stata una scelta faticosa».
Caterina, va detto, non risulta subito simpatica…
«Non volevo che lo fosse. Non volevo nemmeno che fosse risolta, o un’eroina. Volevo fosse umana. Le persone non sempre sono simpatiche, e spesso hanno desideri contrastanti. Lei stessa da una parte vuole affermarsi, dall’altra vuole nascondersi. E non volevo fosse migliore di me: come si permette lei, sulla pagina, di essere migliore di me nella mia piccola vita privata? Questa storia attinge a quello che conosco, che ho studiato a fondo».
Perché nel romanzo usi il termine “ingegnere” e non “ingegnera”?
«Il romanzo è ambientato tra il 2005 e il 2006 e credo di avere semplicemente rispettato il periodo storico. Se lo avessi ambientato nel 2020 probabilmente avrei scritto ingegnera. Solo negli ultimi anni c’è stato un cambiamento dal punto di vista del linguaggio, che significa un cambiamento di tante cose. E per fortuna».
Quando Caterina assume il nuovo incarico è il 2 agosto, lo stesso della strage alla Stazione di Bologna: casualità?
«Non lo è, perché è una ricorrenza che ho sempre in testa. Per quanto riguarda l’Italia, è una data che metto insieme a quelle della morte di Falcone e di Borsellino. Quando ero incinta di mio figlio, secondo i calcoli sarebbe dovuto nascere il 2 agosto. Rifiutavo con tutte le mie forze una data così triste. Fortunatamente è nato il 4 agosto».
Il lavoro, la scrittura: com’è cambiato negli anni il tuo rapporto con la gestione del tempo?
«Non riesco nemmeno a capire come trovavo il tempo per scrivere quando lavoravo. C’è stato il congedo per maternità, c’erano le vacanze estive. Avevo “buchi” di tempo di questo tipo. Poi, scrivendo racconti organizzavo piccoli pezzi che magari avrebbero in qualche modo composto romanzi. Dal 2019, l’anno delle mie dimissioni, sono entrata in una sorta di ruota, specie dopo il Campiello. Adesso riesco a spalmare meglio le ore. Più di tutto il tempo mi si è liberato. Sono arrivata a decidere. Mi alzo sempre prestissimo, faccio un sacco di cose, ma è diverso. Il tempo non è mai tuo quando sei alle prese con qualcosa che ti risulta faticoso».
Caterina ha dubbi nel suo lavoro. Tu in che rapporti eri con il tuo?
«Sono innamorata dell’ingegneria idraulica. Ho fatto anche dottorati. Lo studio era come un’abbuffata, un tempo immersivo. Ho partecipato alla ricostruzione post alluvione in Piemonte, nella Pianura Padana… Poi, a un certo punto ti devi ristrutturare per diventare quadro, dirigente. Stai meno sul campo, ti occupi della gestione del potere, delle persone. Non dico non fossi brava, però si è un po’ persa la passione. Ma coltivo ancora amore per l’ingegneria. Con un po’ di bovarismo, da lontano. I miei colleghi mi mandano ancora foto, video. Anche io chiedo: ho visto che ha piovuto qui, là, a che livello sono le acque? Diventi un anziano dei cantieri, ecco. Ma lo diventi presto perché impari da subito a fare e osservare, anche le piccole cose da una finestra. Qui dove sono, per dire, vedo una gru e ne sono affascinata».
Un mestiere che sembra richiamare la scrittura.
«La scrittura me l’ha insegnata il cantiere, la campagna, il mare, i fiumi. I lavori all’aperto t’insegnano a osservare e questo lo abbiamo un po’ perso. Sicuramente avevo qualcosa dentro. Ne “Le isole di Norman” raccontavo l’isola di Ortigia rielaborata con gli occhi che mi sono fatta guardando il cantiere. Una cosa fortissima».
Il prossimo romanzo?
«Ci sarà. Sappiamo questo. Anzi, c’è già».
Ci vuole coraggio per cambiare?
«Ci vuole incoscienza. Inquietudine. Non so se è un dono o una dannazione. Io sicuramente ce l’ho. Si cambia per tanti motivi, ma io apprezzo molto chi non cambia mai. Chi fa le elementari, le medie, le superiori e magari l’università nella stessa città. Ammiro la vita quieta. Non l’ho mai avuta».