Se dici che il color carne è solo rosa, discrimini. Adesso lo sanno anche i dizionari
«Pronto? Ciao, io sono Cristina, quella bianca delle due». Segue risata. Sua, della sottoscritta e di Giuditta. «Quella nera delle due». Cristina Maurelli è di Milano. Giuditta Rossi, di Prato. Ma non è un problema. Si vedono comunque ogni giorno. Si incontrano come libere professioniste alcuni anni fa «su altri tavoli». Si piacciono subito, in pochi anni elaborano una propria metodologia di consulenza e costituiscono una società sulle strategie di narrazione i cui concetti di inclusività, diversità, sostenibilità sono elementi cardine.
Dallo sgomento… Tutto molto bello. Poi un giorno succede che Cristina pronuncia una frase apparentemente innocua: «Ho detto: Senti Giudi, sotto quel vestito devi mettere un reggiseno color carne. Io a momenti svenivo, lei rideva. A quel punto abbiamo realizzato con un certo sgomento che quel termine era tremendo». Magliette color carne, calze color carne, intimo color carne e varie ed eventuali color carne: tutto a posto? Certo che no. E lì la lampadina si illumina. «Quello appena raccontato è un esempio fantastico di come dietro a parole apparentemente innocue ci sia un mondo di discriminazione». La cosa che stavano cercando era davanti ai loro occhi. «Proprio noi che cerchiamo di portare ai clienti concetti legati alla comunità ci eravamo cascate». È qui che parte la campagna di advocacy Color Carne.
…alla nascita di Color Carne. «Questo aneddoto si lega strettamente alla mia storia personale», racconta Giuditta. «Neanche io ci avevo pensato fino a quel momento. Invece noi vogliamo proprio far pensare. Ed è partendo dalle nostre esperienze che abbiamo voluto strutturare una strategia per questa campagna chiamata Color Carne. Abbiamo creato un sito, colorcarne.it, sul quale è stato riproposto proprio lo stupore iniziale di sgomento. Anch’io conoscevo il tema, ma non mi sono mai soffermata su questo aspetto. È connaturato. Con questa campagna partecipata invece vogliamo far cambiare la percezione». La risposta è stata ampia e diversificata. Attraverso la creazione di card con persone di diversi colori di pelle, il sito è stato riempito di immagini. Il messaggio? Color carne non è solo il colore rosino, o beige, ma contiene tutti i colori dell’umanità.
Cambiare il linguaggio. La tappa successiva è stata quella di contattare i dizionari affinché cambiassero la definizione di color carne. Il 21 marzo, Giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale, Cristina e Giuditta hanno raccontato alla community il primo traguardo che l’azione partecipata di advocacy ha raggiunto: l’impegno di alcuni dizionari a modificare la definizione di color carne. Il primo è stato il Garzanti. Da quella data, le risposte sono arrivate anche dal Devoto – Oli, lo Zanichelli – Zingarelli e altri. Ultimo arrivato in ordine di tempo, ma altrettanto importante, è il dizionario del magazine Internazionale. «Sono risultati tangibili. Misurabili. Ora è assodato che chi usa color carne in questo modo discrimina. Un punto di arrivo forte – commentano –. Solo la Treccani non si è fatta sentire. È indietro, pazienza».
Sfidare lo standard. Il loro è un lavoro di bold stories in prospettiva futura e sempre più trasversale. Tra i settori che hanno ampliato i concetti di color carne troviamo l’intimo, il make-up, i cerotti, le matite inclusive, i colori skin-tone e anche le scarpe da ballo. «Prima – sottolinea Giuditta – le scarpe con le punte le ballerine nere dovevano colorarle col fondotinta, spendendo così soldi in più, e anche la questione economica ha il suo peso in questo ambito, visto che lavoriamo con i brand. E poi c’è il tema della rappresentazione. Se non ti senti rappresentata come categoria, non ti senti parte di una comunità come persona. Lavoriamo nell’ambito delle bold stories e lo spirito audace, coraggioso, è quello che ci piace. Il nostro progetto ora si sta allargando, siamo state anche invitate nelle scuole, abbiamo sviluppato laboratori con super piccoli e super piccole delle primarie, e questo aiuta a diffondere un messaggio di consapevolezza».
Già, perché «il nostro è un invito a sfidare lo standard – le fa eco Cristina – e quando lo standard non ci corrisponde più dobbiamo agire per il cambiamento. La discriminazione passa attraverso questo e il tema non è sempre così esplicitato. Lo standard è una costruzione culturale, se le persone non ci stanno più dentro, restano interessanti per quello che sono. Non facciamo questo perché siamo delle brave persone (beh, magari lo siamo…), ma perché una società più felice rende tutti e tutte più felici». Per fortuna, conclude Giuditta, «la Generazione Z è più sensibile a certe tematiche e se un brand non risponde a certe esigenze ha la forza di boicottarlo».