Il diritto di fallire
Non voglio parlare del diritto fallimentare. Non voglio riferirmi alla disciplina della bancarotta. Ma al diritto, alla possibilità, di non essere sempre al top. Cosa significa?
“Signorina, non sono affatto soddisfatto del suo esame, le do un 19”. 19 è una valutazione, come tante altre. Come 20, come 25, come 30, come 18. Il risultato non cambia: l’esame è stato superato.
“Signorina, possiamo vederci a settembre, se vuole può risostenere l’esame. Altrimenti è un 27”.
“Allora, com’è andata?”. “Bene!”. “Ma se non l’hai passato….”. “Vero, ma non avevo nemmeno studiato e non l’ho passato per 3 punti. Quindi è andata bene”.
In tutte queste tre situazioni, lei era soddisfatta del suo risultato. Eppure, hanno sempre provato a farla sentire in difetto. Il pensiero è tornato a quando faceva l’Università, da studente frequentante, quando era il suo unico impegno. E ricorda la continua ansia che accomunava gli/le studenti nella ricerca della perfezione.
Poi ha iniziato a lavorare, ha scoperto che le competenze non dipendono da come si è state valutate nel corso della vita, ma da ciò che si sa realmente fare. Si ridimensionano quelli che ci hanno fatto vivere come insuccessi scolastici. Smettiamo di essere angosciati/e da quel 2 in matematica in 5° superiore, o da quell’anno perso, e proviamo a ricominciare. A farci valere per ciò che siamo. Tuttavia, anche al lavoro ci viene richiesto di essere sempre al top.
Non può esistere la giornata no, bisogna mascherarla. Non può esserci un momento in cui con la testa sei altrove, magari in cui stai pensando alla tua vita privata, a come organizzare la giornata tra famiglia e ufficio, all’orario più conveniente per trovarti con le amiche.
Non può esserci questo spazio. La società pretende da noi di essere funzionanti. Di essere un perfetto ingranaggio nel meccanismo che muove tutto il sistema. Che fa arricchire chi è già ricco e fa rimanere povero chi è povero. Non importa cosa stai facendo, lo devi fare bene, essere concentrata.
Se sbagli, ci sarà qualcun altro la prossima volta che lo farà meglio di te. Se sbagli, e sei donna, porti con te anche il pesante bagaglio relativo al fatto che il tuo errore potrebbe essere attribuito inconsapevolmente all’intera categoria. Se sei donna lesbica, ancora di più. Se sei donna, lesbica, trans, nera, disabile… insomma, se fai parte di una minoranza discriminata, ti porti sulle spalle anche lo stress di fare bene per la tua categoria.
E alla fine di tutto questo cosa si ottiene? Niente. Perché se si fa bene, nessuno dirà brava. Se si fa male, invece, non si avrà probabilmente la possibilità di dimostrare che si sa fare. Il giorno dopo ci sarà qualcun altro a farlo.
Così, l’ansia per il rischio di non passare un esame, o prendere un 18, si trasforma in ansia da prestazione in tutti i campi della vita. Quello professionale, ma anche quello privato. Lavoriamo in media 10h al giorno, arriviamo a casa e ci occupiamo della nostra vita privata, abbiamo problemi, pensieri, difficoltà. C’è chi fa più di un lavoro. C’è chi non ha un lavoro.
Il risultato non cambia: siamo tutti ingranaggi di un sistema.
E non possiamo permetterci di romperci e di far fermare il tutto.
L’automazione della catena di montaggio non ha fatto altro che allargarla inglobandoci tutti/e.
Concediamoci di sbagliare. Anche se la società non lo fa.